Il dolore anteriore di ginocchio (AKP è l'acronimo inglese per definire "anterior knee pain") è una delle condizioni più frequenti per la quale un giovane adulto o adolenscente visita un ortopedico. Quando il ginocchio fa male viene da pensare che la causa risieda porprio all'interno di questa articolazione...e, spesso è anche vero! Tuttavia questa sindrome, e la sua eziologia, non è completamente stata chiarita e questo giustifica i non sempre buoni risultati dei vari trattamenti. Per molto tempo si è sostenuto che la principale responsabile del dolore anteriore di ginocchio fosse la rotula. Tuttavia attualmente la letteratura ha dimostrato anche un collegamento tra un anomalo funzionamento dell'anca e lo sviluppo di questo dolore, soprattutto nei casi in cui la terapia conservativa al ginocchio ha fallito. In particolare, la patologia incriminata viene chiamata FAI, altro acronimo che sta per "impingement femoroacetabolare". Scopriamo di cosa si tratta... Il FAI è una patologia dall’anca dove, a causa della morfologia della testa femorale e/o dell'acetabolo, è tale che durante il normale movimento i due capi articolari non si muovano liberamente ma entrino in conflitto fra loro. È conseguenza di patologie congenite o acquisite dell’anca, spesso dell’età evolutiva. Esistono fondamentalmente due tipi di conflitto: 1) Se l’acetabolo ha una forma tale da stringere come una tenaglia la testa femorale, riducendone quindi l’escursione (questa forma colpisce prevalentemente le donne) viene definito PINCER FAI; dove PINCER appunto sta per "tenaglia". 2) Se la testa femorale non è perfettamente sferica, durante il movimento la parte deforme confligge con il bordo acetabolare (questa forma è tipica degli uomini) e viene chiamata CAM FAI; dove CAM sta per "camma" ossia la forma che assume la testa femorale. Spesso però le i due tipo di confilitto si uniscono tra di loro formando una confilitto di tipo misto. Cosa comporta il FAI? Spesso questa patologia conduce ad una lesione del labbro acetabolare, l'anello fibrocartilagineo che riveste l'acetabolo che in seguito consuce inevitabilmente ad uno stato di sofferenza della cartilagine articolare. Perché può provocare dolore anteriore di ginocchio? Clinicamente, i pazienti con CAM FAI spesso si presentano con una rotazione femorale esterna che viene interpretata come un meccanismo di difesa per evitare il conflitto e quindi il dolore all'anca. Questo atteggiamento in rotazione esterna sembra che provochi un malfunzionamento dell'articolazione tra femore e rotula e di cosneguenza dolore anteriore di ginocchio. Come si può diagnosticare il FAI? Ovviamente con un accurato esame clinico di uno specialista che cercherà i segni clinici della malattia con test specifici (i più utilizzati sono il FABER e FADIR). Poi sarà necessario uno studio radiografico attraverso una radiografia del bacino, delle anche in proiezione di Dunn a 45° e 90°. Se necessario saranno richiesti anche esami di secondo livello quali una RMN dell’anca (non del bacino) e meglio se con mezzo di contrasto (Artro-RMN) ed una TC con ricostruzione tridimensionale dell’anca. Letture consigliate:
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Il PRP negli ultimi anni viene proposto come trattameto d'avanguardia per molte patologie e alcuni atleti top sembra siano stati trattati con questa metodica. Molti pazienti però non sanno nemmeno cosa sia e quale sia la sa reale efficacia. Scopriamolo insieme... Cos'è il PRP o plasma ricco di piastrine? L'acronimo PRP sta per "platlet rich plasma" ossia "sangue ricco di piastrine". Altri sinonimi, non sempre usati opportunamente, sono: gel piastrinico o fattori di crescita piastrinici. Questi fattori vengono estratti dal sangue del paziente, purificati una tecnica di centrifugazione e poi vengono iniettati nell' articolazione o nel tessuto danneggiato (tendine, muscolo etc.). Come funziona? Le piastrine sono il principale strumento di coagulazione del sangue e sono creature curiose, nè cellule nè molecole, ma uno strano ibrido spesso chiamate "frammenti di cellule": le piastrine sono per le cellule del sangue come i trucioli di legno sono per un tronco...(se i trucioli fossero estremamente intelligenti)! Le piastrine hanno molteplici caratteristiche biologiche interessanti, ma sono meglio conosciute per la loro funzione coagulativa e questo è principalmente ciò che dà loro il potere rigenerativo. Ci sono innumerevoli fattori biochimici che regolano la guarigione in un complesso meccanico impossibile da spiegare in poche righe. Le piastrine fanno parte di questa equazione, giocando "un ruolo fondamentale nella riparazione e nella rigenerazione dei tessuti"; in particolare regolano i meccanismi fondamentali coinvolti nel processo di guarigione, tra cui migrazione cellulare, proliferazione e angiogenesi. La prima risposta del corpo ad una lesione tissutale è di fornire piastrine alla zona. Le piastrine iniziano la riparazione e attirano cellule staminali nella lesione. L'iniezione di questi fattori di crescita in legamenti, tendini ed articolazioni danneggiati stimola il naturale processo di riparazione. Al fine di massimizzare il processo di guarigione, le piastrine devono essere concentrate e separate dai globuli rossi. L'obiettivo del PRP è quindi di massimizzare il numero di piastrine riducendo al minimo il numero di globuli rossi in una soluzione iniettata nelle aree lese o doloranti. In sintesi, il PRP crea, stimola ed accelera il processo di guarigione naturale del corpo. Esistono evidenze scientifiche? Innanzitutto bisogna restringere la domanda chiedendoci: per quale patologia? L'artrosi di ginocchio o gonartrosi è una delle malattie articolari più comuni ed è caratterizzata dalla progressiva perdita della cartilagine articolare, cambiamenti a livello della membrana sinoviale e ridotta viscosità del liquido sinoviale. Dal punto di vista radiografico, più del 30% delle persone con più di 50 anni soffre di gonartrosi. Dal punto di vista chirurgico la sostituzione protesica (di tutta l'articolazione o di una sua parte) rappresenta ad oggi l'unica soluzione. Ad oggi non esistono farmaci o interventi chirurgici che hanno dimostrato di alterare il corso dello sviluppo artrosico. I farmaci più utilizzati sono spesso somministrati per via intra-articolare con lo scopo di alleviare il dolore e aumentare le funzioni articolari, ma, nelle situazioni di artrosi più avanzate si sono dimostrati poco efficaci. L'acido ialuronico intra-articolare, come ormai dimostrato in diverse meta-analisi, viene ampiamente utilizzato per le sue proprietà di visco-supplementazione e visco-induzione per aumentare la lubrificazione endoarticolare. Di cosa sia il PRP ne abbiamo invece parlato prima. Diversi studi hanno dimostrato l'efficacia, soprattutto nella riduzione del dolore, di questa metodica alla pari dell'acido ialuronico. Quindi è meglio il PRP o l'acido ialuronico? Rispondere in modo chiaro e sintetico non è facile. Innanzitutto è difficile comparare le due metodiche in modo preciso poichè il PRP, a differenza dell'acido ialuronico, viene prodotto con diverse metodiche, spesso enormemente diverse tra di loro. Come al solito per rispondere più correttamente possibile è giusto affidarsi alla letteratura scientifica attuale. Una recente meta-analisi (Zhang 2018) ha provato a confrontare le due metodiche cercando gli studi più omogenei possibili. La conclusione è stata che il trattamento con PRP ha ridotto il dolore più efficacemente rispetto alle iniezioni di acido ialuronico a 6 e 12 mesi di follow-up (valutato con scala WOMAC) mentre a 3 e 6 mesi la differenza non è stata significativa. Anche per quanto riguarda il recupero della funzionalità del ginocchio non sono stati evidenziate differenze significative. Ovviamente gli autori hanno comunque sottolineato che le conclusioni non sono definitive proprio per la difficoltà di trovare studi omogenei e quindi confrontabili. Da ciò la necessità in futuro di avere più studi randomizzati e controllati di alta qualità. In conclusione il PRP è sicuramente una metodica valida ma probabilmente il suo campo di applicazioni migliore non è quello legato all'artrosi di ginocchio. Letture consigliate:
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Il numero di persone che ogni anno iniziano a correre è infatti in forte aumento secondo i più recenti dati statistici a livello nazionale e internazionale. Secondo il rapporto Istat 2017 in Italia il numero di persone praticanti atletica o un’altra forma di corsa o jogging, anche non strutturata o in autonomia, è cresciuto di oltre il 50% nel decennio 2006-2016 interessando circa 3 milioni e mezzo di persone e attestandosi al 4 posto come sport più praticato in Italia dopo Fitness, calcio, e sport acquatici. Negli Stati Uniti la stima di praticanti nel 2015 era di 30-34 milioni con un incremento simile al trend Italiano del 10.3% nei due anni precedenti. Se da un lato questo fenomeno è particolarmente condivisibile per il miglioramento dello stato di salute generale e per la prevenzione delle patologie tipiche della sedentarietà, dall’altro lato espone in particolare i “principianti” della corsa ad un rischio di infortuni da sovraccarico superiore (circa doppio) rispetto al corridore abituale. Cercare di comprendere e prevenire gli infortuni nel corridore alle prime armi è particolarmente importante poiché la motivazione che spinge la gran parte delle persone ad iniziare a correre è prevalentemente legata alla ricerca di un migliore benessere fisico e un eventuale infortunio, che arrivi a compromettere la pratica dell’attività sportiva stessa, può avere inevitabili ripercussioni negative anche a livello psicologico. La gran parte della letteratura scientifica sul podismo riporta le tipologie di infortunio per la popolazione generale di corridori abituali e per i corridori di elite. Tuttavia, di recente, diversi studi hanno evidenziato la differenza sia nella frequenza che nella tipologia di infortunio tra il runner abituale, ovvero colui che pratica la corsa con regolarità almeno settimanale, rispetto al runner principiante che ha da poco iniziato a correre (sedentario almeno nei 3 mesi precedenti) o che non corre con regolarità. Un recente revisione della letteratura ha analizzato l’incidenza degli infortuni nel running. Tra tutti gli articoli analizzati viene riportata un’incidenza che varia da un minimo di 2.5 ad un massimo di 33.0 infortuni per 1000 h di corsa. Considerando poi le sottopopolazioni in funzione del livello sportivo è stato evidenziato come nei runners principianti l’incidenza sia in media del 17,8 mentre nei runners amatoriali abituali l’incidenza media sia di 7,7 infortuni/1000 h. Un singolo studio ha preso in considerazione l’incidenza degli infortuni in runners esperti ultra-maratoneti con un valore riportato di 7,2 infortuni/1000 h. Espresso in altri termini secondo quanto riportato da un’altra revisione della letteratura dal 27% fino al 70% dei runners presenta un qualche tipo di infortunio in un dato momento e il 63% ha sofferto durante l’attività della corsa di infortuni agli arti inferiori, con sintomi persistenti oltre i 6 mesi di durata nel 23% della popolazione. E’ importante tuttavia sottolineare che la definizione di infortunio non è univoca nei lavori in letteratura e che solo un recente “consensus” ha cercato di definire una terminologia comune, per cui si concorda nella definizione di infortunio quando si presenti un dolore muscoloscheletrico correlato alla corsa (allenamento o competizione) che causi una restrizione o sospensione dalla corsa per almeno 7 giorni o 3 allenamenti consecutivi, o che richieda il consulto medico o di altro professionista sanitario. Per quanto riguarda la tipologia di infortuni si stima che la gran parte degli infortuni avvengano con un meccanismo da sovraccarico, interessando nei 2/3 dei casi il ginocchio o le strutture a valle del ginocchio stesso. Le patologie più frequenti riportate sono la sindrome dolorosa anteriore di ginocchio, la tendinopatia achillea, la sindrome della bandelletta ileotibiale, la fascite plantare, gli infortuni meniscali, la periostite tibiale e le fratture da stress. Clicca sui collegamenti per vedere i video di approfondimento delle singole patologie! Un altro dato interessante riguarda la percentuale di praticanti in termini di sesso maschile e femminile; se negli anni 70’ agli inizi del boom del running come sport a più ampia pratica e diffusione la percentuale di maschi rappresentava il 75% del totale dei praticanti, oggi le statistiche riportano un’elevata quota di partecipanti nel sesso femminile che rappresenta ormai oltre la metà dei praticanti. Sono dati importanti che devono spingere il professionista nell’ambito sanitario medico sportivo a conoscere meglio ed approfondire le tematiche epidemiologiche, biomeccaniche ed eziopatogenetiche degli infortuni del corridore per poter gestire correttamente lo sportivo che desidera correre. Non è quindi sufficiente prescrivere la restrizione dalla corsa o concederne la ripresa senza prendere in considerazione aspetti correlati alle modalità con cui viene praticata ed al rischio individuale di infortunio. Nei prossimi articoli approfondiremo quindi altri interessanti argomenti come i fattori di rischio, gli aspetti biomeccanici della corsa e la patologia specifica delle più frequenti problematiche del corridore. Referenze bibliografiche:
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