“L'uomo è un bipede implume.“ - Platone - Breve storia del bipedismo Gli esseri umani sono, tra tutte le creature viventi, gli unici ad esporre una postura eretta. Mentre i primati hanno innato il meccanismo per mantenere il tronco in posizione verticale in una fase molto precoce, solo gli esseri umani sono in grado di mantenere l’ortostatismo e deambulare su due gambe per prolungati periodi. Questa specificità ha di fatto “liberato” le mani in modo che gli esseri umani potessero usarli per compiti diversi. Ciò, di fatto, è stato il primo passo evolutivo. Questa posizione eretta ha fatto sì che gli occhi si spostassero in avanti, ampliando così il campo visivo che, infine, ha acquisito la visione binocolare o stereoscopica. Dal punto di vista filogenetico, l'adozione di una struttura eretta non ha comportato semplicemente una rotazione dell'anca di 90°, ma soprattutto al passaggio lombo-sacrale risultata nella forma cuneiforme del 5° lombare e le prime vertebre sacrali. Il sacro è il punto di equilibrio della stazione eretta. Lo sviluppo della postura eretta ha richiesto inoltre una colonna vertebrale con una forma a doppia-S che differisce da quella del quadrupede a singola S a cui manca la lordosi lombare. E’ proprio quest’ultima la caratteristica che, sebbene non indispensabile per il raggiungimento della postura eretta, permette di rimanerci per tempo prolungato. Anche il quadrupede può alzarsi su due zampe ma il dispendio muscolare è enorme. La formazione della lordosi lombare consente al centro di gravità corporeo di muoversi posteriormente al centro di gravità delle anchei e di fronte a quello delle ginocchia. Dal momento che siamo in grado di stabilizzare questi due articolazioni passivamente grazie alla parte legamentosa, non abbiamo bisogno di potenza muscolare per stare in piedi (ad eccezione dei muscoli del polpaccio che stabilizzano la caviglia) [1]. Anche questo spiega perché la locomozione è molto più economica per gli umani che per i quadrupedi, e perché siamo superiori a quasi tutti gli animali in relazione alla corsa sulla lunga distanza. La detorsione del collo femorale durante la crescita è un altro fenomeno specifico umano. In ultimo bisogna dire però che gli umani hanno anche pagato a caro prezzo per questo unico vantaggio di una postura eretta ed evidentemente non siamo ancora del tutto venuti a patti con questo passo evolutivo. L'uomo è si unico nella postura eretta e ciò contribuisce al suo dominio, allo stesso tempo però, è diventato un fattore di malattia le cui implicazioni non possono ancora essere pienamente afferrate. Sviluppo posturale nei bambini Lo sviluppo filogenetico del rachide è imitato durante la maturazione da feto a bambino e poi da bambino verso l'adulto. Nell'utero, il feto è in posizione flessa e la colonna vertebrale è completamente cifotica. Il neonato tiene anche spalle, gomiti, fianchi e ginocchia in flessione, inducendo la colonna vertebrale, porzione cervicale esclusa, a tenersi in cifosi, come nel caso dei quadrupedi. Le contratture in flessione fino a 30° sono fisiologiche. Più tardi gli estensori del rachide, del collo e del femore sono i primi a rinforzarsi, fornendo al bambino il controllo della testa. Dopo alcuni mesi è anche in grado di sedersi, sebbene con una totale cifosi. In questa fase a livello lombare manca ancora la lordosi, che è un target fisiologico durante questo periodo e prima dell'inizio della deambulazione. Una volta che il bambino inizia a camminare, la stessa lordosi lombare inizia a svilupparsi. Questo processo non è completamente in concerto al rafforzamento dei muscoli e la conseguenza di ciò è una iperlordosi causata dalla gravità che agisce più ventralmente. Nei bambini questa iperlordosi spesso non viene compensata da una ipercifosi della colonna vertebrale toracica con la conseguente comparsa della cosiddetta “hollow back”. Questo tipo di postura in nel bambino è caratterizzato da debolezza fisiologica dei muscoli e lassità legamentosa che è costituzionale in questa fase. La forma “adulta” della colonna si sviluppa solo poco prima della pubertà. Negli anziani, la colonna vertebrale torna nuovamente alla versione cifotica del bambino. Una caratteristica importante del bambino è il riflesso tonico asimmetrico del collo. La persistenza di questo riflesso può portare a una formazione asimmetrica dei muscoli e ad una condizione nota come scoliosi infantile. Relazione tra postura e patologia Il concetto di “danno posturale” è argomento di grande attualità anche in relazione al fatto che i problemi al rachide quali es. la lombalgia sono in continuo aumento tra adulti e ragazzi. Bisogna però sfatare o per lo meno chiarire alcuni miti e questo sarà l’ultimo argomento di questo articolo. Per prima cosa: lo sviluppo della scoliosi strutturale non ha nulla a che fare con la postura.
Letture consigliate:
1. Becker A, Held H, Redaelli M, Strauch K, Chenot JF, Leonhardt C, Keller S, Baum E, Pfingsten M, Hildebrandt J, Basler HD, Kochen MM, Donner-Banzhoff N (2011) Low back pain in primary care: costs of care and prediction of future health care utilization. Spine 35: 1714–20 2. Bramble DM, Lieberman DE (2004) Endurance running and the evolution of Homo. Nature 432: 345–52 3. Hestbaek L, Leboeuf-Yde C, Manniche C (2003) Low back pain: what is the long-term course? A review of studies of general patient populations. Eur Spine J 12: 149–65 4. Ihme N, Olszynska B, Lorani A, Weiss C, Kochs A (2002) Zusammenhang der vermehrten Innenrotation im Hüftgelenk mit einer verminderten Beckenaufrichtbarkeit, der Rückenform und Haltung bei Kindern – Gibt es das so genannte Antetorsionssyndrom? Z Orthop Ihre Grenzgeb 140: 423–7 5. Leboeuf-Yde C, Kyvik K (1998) At what age does low back pain become a common problem? A study of 29,424 individuals aged 12–41 years. Spine 23: 228–34 6. McMaster MJ (1983) Infantile idiopathic scoliosis: Can it be prevented? J Bone Joint Surg Am 65: 612–7 7. Mohseni-Bandpei MA, Bagheri-Nesami M, Shayesteh-Azar M (2007) Nonspecific low back pain in 5000 Iranian school-age children. J Pediatr Orthop 27: 126–9 8. Rossignol M, Rozenberg S, Leclerc A (2009) Epidemiology of low back pain: what’s new? Joint Bone Spine 76: 608–13 La corsa e la lombalgia. Due aspetti da molti considerati con un rapporto diretto di causa-effetto per cui è frequente sentir consigliare l’astensione della corsa in soggetti che soffrono o hanno sofferto di lombalgia. Ma quali sono le evidenze in letteratura e quali effetti può avere la corsa sui dischi intervertebrali? Da un punto di vista biomeccanico la corsa è un’attività di locomozione molto differente dal cammino poiché tra un passo e l’altro avviene una fase di volo (non presente nel cammino dove un piede è sempre in appoggio) che comporta un incremento delle forze in impatto al terreno quantificabile in circa 1.6 -2.3 volte il peso corporeo in relazione alla velocità della corsa. Ad ogni passo ci troviamo quindi ad affrontare un carico di lavoro importante, ed è facile intuire come in presenza di una struttura muscolare non adeguata ad ammortizzare tali forze, in particolare per insufficienza dei muscoli antigravitari degli arti inferiori e del rachide, si possano creare situazioni di sovraccarico del sistema muscoloscheletrico che conducono a patologia. Non a caso infatti una elevata percentuale di soggetti che praticano regolarmente la corsa presenta un qualche tipo di infortunio da sovraccarico durante un anno di attività (stimabile in circa il 50% dei soggetti). Tra le varie tipologie di infortunio, di cui abbiamo parlato anche in precedenti articoli, gli infortuni a livello lombare rappresentano in realtà una percentuale bassa di circa il 7% del totale, con una prevalenza per la lombalgia cronica in runners amatoriali di circa il 13% (1). Un interessante studio del 2018 ha analizzato la capacità di ammortizzazione degli impatti a livello lombare durante il cammino e la corsa in funzione del grado di lordosi lombare: i dati dello studio riportano una riduzione delle accelerazioni sagittali a livello lombare misurate con accelerometro fino al 64% durante la corsa nei soggetti che presentavano maggior lordosi lombare rispetto ai soggetti con appiattimento della stessa (2). Soggetti con riduzione della fisiologica curvatura lombare (per esempio un quadro di appiattimento lombare frequente in soggetti con abitudini sedentarie e retrazione degli ischiocrurali) sarebbero quindi più a rischio di sovraccaricare la regione lombosacrale rispetto a chi presenta una corretta postura e fisiologica curvatura del rachide. Sempre in tema di assorbimento degli impatti al terreno è importante poi sottolineare l’influenza che può avere il modo in cui si corre sulla capacità di ammortizzazione le forze di trasmissione dal terreno alla schiena: soggetti che corrono con ampia falcata-bassa cadenza, impatto rumoroso con accentuata oscillazione verticale e ridotta flessione di ginocchio al momento dell’impatto al terreno, presenteranno scarsa capacità di assorbire gli impatti con inevitabili ripercussioni in particolare a livello di ginocchia, anche e rachide. Questo è ben evidenziabile durante analisi biomeccanica e baropodometrica della corsa dove si possono quantificare le forze in impatto al terreno e la capacità di ammortizzazione (espressa dalla ripidità dello “slope” della curva di forze al terreno). Sessioni di “running retraining” con istruzioni mirate per effettuare una corsa più leggera al terreno hanno permesso, secondo alcuni studi, di ridurre le forze verticali e il picco di forza in impatto in appoggio (3). Inoltre la pratica regolare di esercizi di rinforzo della muscolatura della schiena e degli arti inferiori sembrerebbe permettere un miglioramento clinico e funzionale della lombalgia in soggetti praticanti la corsa e affetti da lombalgia cronica, con miglior efficacia in particolare per gli esercizi di rafforzamento degli arti inferiori (1). Per studiare gli effetti cronici della pratica della corsa sul rachide lombare un gruppo di ricercatori ha analizzato il livello di idratazione e trofismo dei dischi intevertebrali in soggetti non sportivi ed in soggetti praticanti la corsa da almeno 5 anni con chilometraggi di 20-40 Km/sett e oltre 50 km/sett. I risultati dello studio hanno evidenziato un effetto adattativo dei dischi intervertebrali con maggior idratazione e ipertrofia in particolare nella regione centrale del nucleo nei soggetti praticanti allenamenti di corsa prolungati rispetto a chi correva distanze inferiori o ai sedentari, come evidenziato anche in figura (4). Altri lavori tuttavia riportano una riduzione dello spessore dei dischi intervertebrali in particolare degli ultimi livelli lombari subito dopo l’attività della corsa (5 e 6). Più in generale una revisione della letteratura riguardo agli effetti dell’attività sportiva sui dischi intervertebrali riporta come attività potenzialmente benefiche per i dischi stessi la pratica di esercizio in carico con velocità da lente a moderate, come ad esempio il cammino ed il jogging, mentre attività comportanti movimenti torsionali, in flessione-compressione, carichi rapidi e ad alto impatto risulterebbero dannose per la salute dei dischi intervertebrali. Un simile effetto negativo si verifica a livello discale come ben noto anche per l’eccessiva riduzione dell’attività fisica generale e per l’inattività (7). Da quanto esposto risulta quindi comprensibile come in funzione delle caratteristiche individuali la corsa possa rappresentare un rischio di sovraccarico per il rachide in alcuni soggetti, mentre per altri possa essere uno strumento per migliorare lo stato di salute. Piuttosto che sconsigliare la corsa a priori sarebbe quindi utile indagare, oltre agli aspetti anamnestici e clinico-posturali del paziente, anche la sua modalità di corsa e di controllo del movimento, valutando alcuni semplici test funzionali in ambulatorio (come ad esempio lo squat e il ponte monopodalico) ed osservando quantomeno il soggetto correre (ad esempio tramite video se non si ha a disposizione un tapis roulant o la possibilità di studiare il controllo del movimento e la tecnica di corsa con appositi test biomeccanici). L’obiettivo dovrebbe essere quello di fornire ai pazienti-sportivi indicazioni personalizzate per esercizi terapeutici (in particolare di stretching, controllo posturale e rafforzamento muscolare) e di eventuale modificazione della modalità-intensità degli allenamenti e della tecnica di corsa al fine di permettere la pratica di un’attività sportiva desiderata e allo stesso tempo di limitare il rischio di sovraccarico. Referenze bibliografiche:
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