Dr. Lorenzo Boldrini Dr. Francesco Poggioli Abbiamo visto in un precedente articolo sull’epidemiologia degli infortuni del corridore come sia frequente incappare in qualche tipo di infortunio, in particolare quelli da sovraccarico, con la pratica della corsa. Ma perché ci si infortuna così spesso? Quali sono le principali cause ed i fattori di rischio? Diversi studi in letteratura riportano una possibile correlazione con specifici fattori di rischio, ma i dati non sono sempre univoci e dipendono in particolare dalla popolazione presa in considerazione nel singolo studio. Cerchiamo dunque di fare un po’ di chiarezza e di approfondire l’argomento. Una recente revisione della letteratura del 2015 riporta come principali fattori di rischio una storia di precedente infortunio e l’uso di inserti plantari, con evidenza rispettivamente forte e moderata. Una maggior predisposizione agli infortuni sarebbe poi documentata per gli uomini rispetto al sesso femminile, in particolare per i soggetti con meno di 40 anni, seppur con limitata evidenza. Altri fattori connessi ad un maggior rischio di infortunio sarebbero poi l’età (soprattutto per sesso femminile), l’aver iniziato a correre da meno di 2 anni, il percorrere elevati volumi di allenamento (>40-50 km a settimana), la corsa su superfici dure e in cambio frequente di calzatura da corsa. Diversi studi sottolineano quindi come il principale fattore di rischio per gli infortuni sia l’avere avuto una storia di infortunio precedente: se non ben recuperato un vecchio infortunio può portare, senza che il soggetto ne sia necessariamente consapevole, ad una perdita parziale di mobilità articolare, di flessibilità o forza muscolare, arrivando a costituire per così dire un “anello debole” della catena muscolo-scheletrica dell’arto infortunato, spesso con conseguenti compensi di adattamento e squilibri posturali. Recuperare bene e completamente da un infortunio precedente, oltre ad identificare e correggere i conseguenti squilibri posturali, diventa quindi importante per mettersi - per così dire - un vecchio infortunio alle spalle e per ridurre la possibilità di pagarne le conseguenze nel tempo. Un altro importante aspetto da considerare è il carico assiale (ovvero il peso sostenuto dall’asse di carico dell’arto in appoggio) che ad ogni passo della corsa è stimabile in circa 2 volte il peso corporeo. Corridori alle prime armi, che presentano una ridotta capacità ammortizzante al terreno, che corrono tipicamente con un appoggio del piede anteriore rispetto al centro di gravità del corpo (contatto al suolo con il tallone e bassi angoli di flessione di ginocchio in fase di impatto), avranno un maggior trasferimento di energia alle strutture muscolari e scheletriche, con maggior rischio di sovraccarico delle stesse in particolare a livello di ginocchio, anca e schiena. Questo sembra essere particolarmente accentuato secondo uno studio sui fattori di rischio per gli infortuni del ginocchio nel corridore in particolare in presenza di accorciamento della catena muscolare posteriore, sovrappeso, eccessive distanze di allenamento. Queste caratteristiche, ben evidenziabili attraverso l’analisi biomeccanica della corsa, rendono conto della necessità di adattare molto gradualmente il corpo ai carichi della corsa per evitare di incorrere precocemente in un infortunio, in accordo con la legge di Wolff sul rimodellamento e l’adattamento dei tessuti ad uno specifico carico di lavoro. Per spiegarla in altre parole, è necessario dare il tempo ai tessuti di adattarsi gradualmente per resistere alle sollecitazioni della corsa a cui non sono abituati, cosa che richiede necessariamente tempo e regolarità di allenamento. A tal proposito sembrerebbe che runners principianti che in precedenza svolgevano attività sportiva a basso carico assiale (ad esempio ciclismo e nuoto), o che non svolgevano del tutto attività sportiva, siano più esposti al rischio di infortunio rispetto a coloro che prima di iniziare a correre svolgevano già un qualche tipo di attività sportivo in carico (ad esempio tennis, pallavolo,…), o che già in passato avevano praticato la corsa. In linea con questo ragionamento si inserisce un altro elemento spesso alla base dell’insorgenza dell’infortunio, ovvero gli errori di allenamento: incrementi eccessivi di intensità, durata e frequenza sono di frequente il motivo dell’infortunio da sovraccarico tipico del corridore. Secondo alcuni autori l’incremento del carico di lavoro (inteso appunto come intensità, durata e frequenza degli allenamenti), non dovrebbe superare il 10-30% in più di quanto svolto la settimana precedente. Meno chiara sembrerebbe la correlazione tra la riduzione del rischio di infortunio e la pratica di esercizi di riscaldamento e preparazione prima di iniziare la corsa. Riguardo alla popolazione di runners principianti un studio riporta una possibile correlazione tra il maggior rischio di infortunio e l’indice di massa corporea (BMI): runners inesperti con valori di BMI >30 sembrerebbero più esposti agli infortuni rispetto a coloro che pesano meno e che presentano un BMI inferiore. In generale il consiglio che possiamo dare in particolare al runner “principiante” è quello di iniziare a correre in modo molto graduale. Iniziare alternando brevi tratti di corsa (all’inizio 1 minuto può essere più che sufficiente) a tratti di cammino per 4-5 volte, cercando di fare 4-5 brevi allenamenti settimanali con regolarità piuttosto che solo 1 o 2 allenamenti di durata o intensità superiore. Chi fosse molto decondizionato o in evidente sovrappeso farà bene inizialmente ad iniziare solo con il cammino, alternando tratti di cammino lento a cammino veloce, per creare un graduale adattamento sia cardiovascolare che delle strutture muscolari e scheletriche. In associazione, un corretto stile di vita e una equilibrata alimentazione sono elementi fondamentali da non trascurare per facilitare il miglioramento dello stato di forma fisica generale e per cercare di ridurre il rischio di infortunio. Letture consigliate:
Karl Kraus diceva che: “Una delle malattie più diffuse è la diagnosi.” A maggior ragione quando un giovane atleta giunge all’attenzione di un sanitario lamentando dolore inguinale la cosa peggiore che si può fare è una diagnosi sui generis come “pubalgia”! In realtà questo termine non esprime neanche una diagnosi ma un sintomo e, come tale, dovrebbe essere considerato prima di indirizzare il paziente ad un generico iter terapeutico. Molto spesso infatti, un’inaccurata diagnosi comporta un inadeguato percorso terapeutico che, a sua volta, può esitare in una problematica disabilitante che costringe l’atleta ad una lunga sospensione dell’attività, se non al suo abbandono Gli anglosassoni hanno coniato il termine “groin pain syndrome” per definire meglio la complessità di questa coorte di sintomi, caratterizzati da dolore nella zona pubica. Un altro luogo comune diffuso è pensare che questa patologia sia di pertinenza di sportivo di alto profilo. La pubalgia interessa infatti per lo più atleti di livello intermedio. La causa va ricercata nel fatto che questi ultimi spesso non posseggono un livello di condizione atletica sufficientemente adeguato ed altrettanto frequentemente trascurano ogni tipo di programma preventivo, nonostante ciò la richiesta funzionale durante l’attività rimane relativamente elevata, favorendo in tal modo l’insorgenza della patologia. Lo sport dove si assiste alla massima incidenza è il calcio a causa dei tipici movimenti di cambio di lateralità, accelerazione e decelerazione in concerto con il calciare ed il correre su superfici irregolari (tipiche delle categorie meno elitarie). L’eziopatogenesi della publagia in letteratura annovera fino a 70 cause. Per sintetizzare e comprendere meglio il quadro generale ritengo che la miglior classificazione sia quella proposta da Omar e colleghi che isolano 37 patologie distifuibili in 10 categorie: Categoria I: cause viscerali
Categoria II: cause associate all’articolazione coxo-femorale
Categoria III: cause pubico-sinfiseali
Categoria IV: cause infettive
Categoria V: patologie infiammatorie pelviche
Categoria VI: cause infiammatorie
Categoria VII: cause traumatiche Clinica Quindi molte patologie entrano in diagnosi differenziale, creando spesso problemi di inquadramento diagnostico. Tuttavia, mentre nello sportivo adulto l’errore nella diagnosi e quindi nell’impostazione della terapia, può avere come conseguenza un ritardo nella riammissione alla pratica sportiva, nello sportivo adolescente, un ritardo nella diagnosi o nella applicazione del corretto schema terapeutico, può avere conseguenze ben più gravi, tanto da compromettere l’integrità stessa del soggetto. Non dobbiamo infatti dimenticare che nel giovane adulto vanno inserite in diagnosi differenziale anche il morbo di Perthes e l’epifisiolisi dell’anca. Dal punto di vista clinico il sintomo principe è il dolore nella regione pubica. Il deficit funzionale è ovviamente correlato all’intensità della sintomatologia dolorosa che può irradiarsi in basso verso la zona adduttoria, oppure in alto verso l’area addominale, od ancora in direzione del perineo e dei genitali. Da un punto di vista obiettivo il paziente può lamentare dolore alla palpazione, alla contrazione muscolare contrastata e durante lo stretching passivo ed attivo. Occorre quindi basare la diagnosi su test basati sulla contrazione dei vari gruppi muscolari, sullo stretching e sull’esame obiettivo del canale inguinale e della parete addominale in toto. Imaging E’ sempre consigliabile effettuare una proiezione radiografica convenzionale. Questo perché come detto sopra vanno escluse le patologie che possono mettere a rischio il corretto sviluppo dell’articolazione coxofemorale, inoltre dalla radiografia si può evincere un eventuale conflitto femoro-acetabolare di tipo CAM-FAI, PINCER-FAI, forma mista, erosioni ossee, dismetria delle branche pubiche, una osteoartosi (possibile anche in soggetti giovani), tumori, fratture da stress (sensibilità Rx convenzionale non elevata) o fratture da avulsione. Se il sospetto è di ernia inguinale l’ecografia rappresenta la scelta d’elezione. Infine la risonanza magnetica è considerato l’esame gold-standard grazie alla sua capacità di fornire informazione dettagliate concernenti le strutture ossee, tendinee e muscolari Terapia Il trattamento conservativo, sebbene in letteratura non vi sia un consensus su come inquadrarlo globalmente, permette di raggiungere la guarigione completa in circa l’80% dei casi’, ed è comunque raccomandato, come prima scelta terapeutica, dalla maggioranza degli Autori. Il trattamento chirurgico dovrebbe essere riservato ai pazienti che non abbiano fatto registrare nessun tipo di miglioramento clinico evidente dopo essere stati sottoposti ad un adeguato trattamento conservativo della durata di almeno 3-6 mesi. Ovviamente il tipo di trattamento varia a seconda della patogenesi della pubalgia. Letture consigliate:
C., Lacroix V.J., Mudler D.S., Brown R.A. Operative management of “hockey groin syndrome”: 12 years of experience in National Hockey League Players. Surgey ; 2001 ;130: 759-766. 7. Arezky N., Zerguini Y., Mekhaldi A., Zerdani S., Massen R., Bouras R. La maladie pubienne chez le sportif. Priorité au traitement médical. J Traumatol Sport. 1991 ;8 : 91-97. 8. Berger A. Approches diagnostiques et thérapeutique de la pubalgie du sportif. Thèse Med. 10157. Genève, 2000. 9. Durey A., Rodineau J. Les lésions pubiennes des sportif. Ann Med Pys. 1976; 9:282-291. 10. Durey A. Modifications radiologiques microtraumatiques du pubis. Micro-traumatologie du sport. Masson. 1987 ; 15:185-192. 11. Ekstrand J., Ringborg S. Surgery versus conservative treatment in soccer players with chronic groin pain: a prospective randomised study in soccer players. Eur J Sports Traumatol Relat Res. 2001; 23(4) 141–145. 12. Gibbon WW. Groin pain in professional soccer players: a comparison of England and the rest of Western Europe. Br J Sports Med. 1999; 33:435. 13. Gibbon WW. Groin pain in athletes. Lancet. 1999; 353:1444-1445. 14. Gilmore J., Groin pain in the soccer athlete: fact, fiction and treatment. Clin Sport Med. 1998; 17:787-793. 15. Le Gall F. La pubalgie du sportif. A propos de 214 cas. Thèse en médicine Université de Rennes, 1993. 16. Gal C. La pubalgia. Prevenzione e trattamento. Società Stampa Sportiva(Ed). Roma, 2000. 17. Orchard J., Read J.W., Verral G.M., Slavotinek J.P. Pathophysiology of cronic groin pain in the athlete. ISMJ. 2000; 1(1)134-147. 18. Benazzo F., Mosconi M., Zanon G., Bertani B. Groin Pain. J. Sport Traumatol Rel Res,. 1999; 21(1): 30-40. 19. Scott AL., Renström FH. Groin injuries in sport. Sport Med. 1999; 28(2): 137-144. 20. Maigne R., Le syndrome de la charnière dorso-lombaire. Lombalgie basse, douleurs pseudo-viscérales, pseudo-douleur de hanche, pseudotendinite des adducteurs. Sem Hop Paris. 1981; 57(11-12) : 545-554. 21. Smodlaka VN. Groin pain in soccer players. Phys Sport Med. 1980; 8: 57-61. 22. Koulouris G. Imaging review of groin pain in elite athletes: an anatomic approach to imaging findings. AJR Am J Roentgenol. 2008 Oct;191(4):962-72. 23. Jarvinen M., Orava S., Kuyala M. Groin pain (Adductor Syndrome). Operative Techniques in Sport Medicine. 1997; 5(3): 133-137. 24. Brunet B. La pubalgie, un syndrome « fourre tout ». Thèse Med. Université de Lyon, 1983. 25. Baril L., Caumes E., Bricaire F. Pubic pain after marathon. Lancet. 1998; 351(9103): 642. 26. Ross JJ., Hu LT. Septic arthritis of the pubic symphysis: a review of100 cases. Medicine (Baltimore). 2003; 82: 340-345. 27. Ferrario A., Monti G.B., Jelmoni G.P. Lesioni da sport del bacino e dell’anca. Pelvi, articolazione sacro-iliaca, anca. Edi Ermes. Milano, 2000. 28. Brunet B., Brunet-Guedj E., Genety J., Comptet JJ. A propos du traitement des pubalgies. J Traumatol Sport. 1984; 1:51-55. 29. Gilmore J. Groin pain in the soccer athlete: fact, fiction, and treatment. Clin Sports Med. 1998 Oct;17(4):787-93, vii 30. Renström P., Peterson L. Groin Injuries in athletes. Br J Sports Med. 1980; 14: 30-36. Una lesione del compartimento mediale avviene quando una forza in valgo viene applicata al ginocchio, sia con un meccanismo di contatto che senza contatto. Può presentarsi più frequentemente come lesione isolata o in associazione, ed in questo caso con un ampio spettro di lesioni legamentose. Le indicazioni riguardanti il trattamento del comparto mediale del ginocchio presentano ancora alcune controversie, principalmente nei casi di lesioni associate. La controversia deriva dalle notevoli capacità intrinseche di riparazione delle strutture mediali e dalla possibilità di artrofibrosi articolare secondaria alla riparazione o alla ricostruzione chirurgica.
In questo articolo: Gelber PE, Perelli S. Treatment of the medial collateral ligament injuries. Ann Joint 2018;6:78 se ne parla ed è presente un utile algortimo per capire come comportarsi davanti ai diversi scenari che si posso presentare. Buona lettura! |